L’analisi dei risultati della votazione referendaria dovrebbe essere motivo di seria preoccupazione soprattutto per i parlamentari del centro-sinistra eletti nella circoscrizione estero.
In America Settentrionale e Centrale vince il SI con il 52,8%.Il Sen. Turano (sinistra) subisce la vittoria del SI negli USA (53,4%) e nella sua Chicago (53,2%).Va meglio all’On. Bucchino (sinistra) perche’ anche se il SI vince di misura in Canada (50,1%), la sua Toronto e’ in controtendenza; infatti e’ l’unica circoscrizione elettorale del Canada e di tutta la ripartizione dove ha vinto il NO con il 52,3%.
In America Meridionale il SI vince con il 62,9%.I sostenitori di Prodi Sen. Pallaro ed On. Merlo assistono alla vittoria del SI in Argentina (58,2%) e nella loro Buenos Aires (56,3%).Va anche peggio per il Sen. Pollastri con il SI al 73,4% in Brasile ed al 70,4% nella sua San Paolo. Il Sen. Randazzo (Margherita) e l’On. Fedi (DS), si ritrovano con il SI al 53,4% nella loro ripartizione, al 52,4 % in Australia ed al 54,3% a Melbourne dove vivono.
In Europa, dove e’ piu’ forte l’influenza della politica italiana, il SI vince, ma con solo 4,5 punti percentuali ed a macchia di leopardo. Infatti se, ad esempio, e’ vero che nella Francia dell’On. Farina (DS) vince il NO con il 52,2%, il SI vince a Lilla (51,4%), a Marsiglia (52,6%), a Nizza (52,8%) e pareggia a Tolosa.Nella Svizzera del Sen. Micheloni (DS), dell’On. Narducci (Margherita) e dell’On. Razzi (IdV) il NO e’ al 59,6, ma a Lugano il SI e’ al 51,8%.
Nel maggior Paese di emigrazione, la Germania, c’e’ un sostanziale pareggio (SI 49,8% - NO 50,2%), ma il SI prevale a Stoccarda, Colonia, Dortmund, Friburgo, Hannover, Norimberga e Saarbrucken.
6/29/2006
6/20/2006
QUESTO REFERENDUM E’ UN’ OCCASIONE STORICA. NON PERDIAMOLA.
SERVELLO: “QUESTO REFERENDUM E’ UN’ OCCASIONE STORICA. NON PERDIAMOLA.” Per la prima volta, da 1947, gli italiani hanno la possibilità di cambiare realmente la Costituzione. Gli allarmisti sono in malafede. Con il premierato, lo scettro torna al popolo sovrano.
“Quella del 25 e 26 giugno è un’occasione storica. E richiede una grande mobilitazione. Per la prima volta, in quasi sessant’anni, abbiamo la possibilità reale di riformare la Costituzione”. Insiste molto sulla crucialità dell’appuntamento referendario lo storico esponente della destra italiana Franco Servello. Quello della riforma istituzionale è uno dei leit motiv della sua attività politica fin da quando, alla fine degli anni Settanta, lanciò la campagna per la Nuova Repubblica al fianco di Giorgio Almirante (all’epoca Servello era il vicesegretario vicario del Msi – Dn). Tra il 1997 e il 1998, l’uomo politico di An ha fatto parte della Commissione Bicamerale, dimostrandosi uno dei commissari più attivi e continui, come pubblicamente gli riconobbe il presidente di tale commissione, Massimo D’Alema. Sulla necessità di modernizzare le istituzioni Servello ha pubblicato diversi libri. Tra questi ricordiamo Quarant’anni e li dimostra – L’Italia del malessere dal 45 a oggi, uscito in vista del quarantennio della Costituzione, e Italia addio?, pubblicato nel 1998, all’indomani del fallimento della Bicamerale. Questa lunga esperienza sul campo delle riforme non ha minimamente fiaccato il suo entusiasmo. Il presidente della Campania, Antonio Bassolino, dichiara di augurarsi una mobilitazione degli elettori meridionali contro la riforma. Lo spauracchio demagogico è quello della sperequazione tra Regioni del Nord e Regioni del Sud.
Lei, senatore Servello si batte da una vita per l’unità e la coesione della nazione. Quindi, se si impegna per il “sì”, vuol proprio dire che certi allarmismi sono solo fumo negli occhi, no? Si, quella di Bassolino e di certi meridionalisti dell’ultimora è demagogia allo stato puro. Ha fatto bene a ricordare il mio percorso politico. Figuriamoci se uno con il mio passato potrebbe dire sì a una riforma avendo anche solo il più piccolo sospetto che tale riforma possa spaccare il Paese. Parliamo piuttosto di cose serie e concrete. Nel testo della legge c’è un richiamo esplicito e chiaro all’unità dello Stato e all’interesse nazionale.
Cosa vuol dire in pratica? Innanzi tutto il fatto che non ci saranno Regioni a due velocità. La clausola dell’interesse nazionale fa sì che tutte avranno garantite le stesse opportunità nel quadro dell’equità, solidarietà e sviluppo sociale. Prima dell’entrata in vigore, nel 2011, c’è tutto il tempo di calibrare l’intervento dello Stato prevedendo un fondo perequativo. E poi vorrei precisare che, quello previsto dalla riforma, non è un vero e proprio federalismo, quanto piuttosto un trasferimento di funzioni dallo Stato alle Regioni nell’organizzazione di servizi essenziali come la sanità, la scuola e la polizia locale.
Ma ci sarà pure qualcosa che non la convince del tutto in cinquantasette articoli che cambiano…Guardi, l’intero impianto della legge di riforma è coerente e le varie parti si tengono bene insieme. Dovendo trovare punti deboli, direi che possono annidarsi nel nuovo Senato. Andrebbe meglio precisata la distinzione di funzioni rispetto alla Camera. E questo per snellire il processo legislativo, come è nei principi ispiratori della riforma. La fine del bicameralismo perfetto dovrebbe servire proprio a darci un iter di approvazione delle leggi più rapido ed efficiente.
Insomma, esistono comunque margini di miglioramento, anche dopo il 26 giugno. Certo che esistono, certo che si può ancora intervenire. Quelli che dicono “prendere o lasciare” sono in malafede. Gli elettori sono chiamati a giudicare l’insieme della riforma e i suoi principi ispiratori. Ma nulla vieta che si possa intervenire qua e là per correggere qualche singolo punto difettoso. Abbiamo cinque anni per apportare miglioramenti. Deve essere però chiaro un concetto.
Quale concetto? O adesso o mai più. Chissà quanto dovremmo attendere ancora prima di riavere un’occasione del genere. Come minimo dovremmo aspettare un’altra legislatura. E’ chiaro come il sole che il centrosinistra vuole lasciare tutto così com’è. Non dico che non vi siano forze riformiste nell’ambito dell’Unione. Ma proprio per questo è importante e strategico che vinca il “sì”. Se vincesse il “no”, è evidente che queste forze verrebbero soverchiate dagli immobilismi, che possono far valere il loro potere di interdizione. E poi guardi, se la legge di riforma venisse bocciata, staremmo comunque peggio di come stiamo oggi, perché tornerebbe in vigore la modifica del Titolo V approvata nel 2001, dal centrosinistra, con appena cinque voti di maggioranza. Ci ritroveremmo cioè con una “riforma” piena di storture.
Lei è stato tra i commissari della Bicamerale presieduta da D’Alema. Che insegnamento ne ha tratto? Che non si possono fare le riforme finché rimane forte il condizionamento della politica. Quella Bicamerale lavorò bene. Ma al momento decisivo naufragò per i veti incrociati tra maggioranza e opposizione sulla questione della giustizia. Anche per questo dico che oggi abbiamo un’occasione storica. Pensi solo al fatto che un Parlamento ha deciso la propria autoriduzione di 177 parlamentari. E’ qualcosa che ha del miracoloso. E appare tale anche osservando il comportamento dell’attuale maggioranza, che ha moltiplicato poltrone e strapuntini. No, il centrosinistra non ha voglia di riformare nulla e non riformerà un bel nulla.
E che mi dice, senatore Servello, del premier forte? C’è chi dice che non ha precedenti e che sarebbe una specie di dittatore. Questa è un’altra favola messa in giro da chi vuole che tutto resti così com’è. Ma quale dittatura!La nostra riforma prevede la sfiducia costruttiva, come accade in Germania. Se il premier non ha più la fiducia del Parlamento, se ne deve indicare un altro, sempre però nell’ambito della stessa maggioranza. In caso contrario, si torna alle urne. La norma antiribaltone è uno dei cardini della legge. Ecco perché la sinistra non la vuole.
Possiamo dire, in conclusione, che con questa riforma lo scettro torna ai cittadini? Esatto. La legge è stata fatta proprio per i cittadini. Devono avere la garanzia che, se eleggono una maggioranza, questa non potrà più cambiare nel corso della legislatura. Altrimenti, i cittadini utilizzano nuovamente lo scettro ed esercitano la loro sovranità tornando a votare. Però c’è ancora un punto che mi preme di mettere in risalto.
Vale a dire? Che per la prima volta, dal 1947, ci troviamo di fronte a una vera riforma della Costituzione, una legge cioè che contiene elementi realmente innovativi.
E’ un’occasione storica, insomma. Si, storica. E non lasciamocela sfuggire.
SI VOTA SI
“Quella del 25 e 26 giugno è un’occasione storica. E richiede una grande mobilitazione. Per la prima volta, in quasi sessant’anni, abbiamo la possibilità reale di riformare la Costituzione”. Insiste molto sulla crucialità dell’appuntamento referendario lo storico esponente della destra italiana Franco Servello. Quello della riforma istituzionale è uno dei leit motiv della sua attività politica fin da quando, alla fine degli anni Settanta, lanciò la campagna per la Nuova Repubblica al fianco di Giorgio Almirante (all’epoca Servello era il vicesegretario vicario del Msi – Dn). Tra il 1997 e il 1998, l’uomo politico di An ha fatto parte della Commissione Bicamerale, dimostrandosi uno dei commissari più attivi e continui, come pubblicamente gli riconobbe il presidente di tale commissione, Massimo D’Alema. Sulla necessità di modernizzare le istituzioni Servello ha pubblicato diversi libri. Tra questi ricordiamo Quarant’anni e li dimostra – L’Italia del malessere dal 45 a oggi, uscito in vista del quarantennio della Costituzione, e Italia addio?, pubblicato nel 1998, all’indomani del fallimento della Bicamerale. Questa lunga esperienza sul campo delle riforme non ha minimamente fiaccato il suo entusiasmo. Il presidente della Campania, Antonio Bassolino, dichiara di augurarsi una mobilitazione degli elettori meridionali contro la riforma. Lo spauracchio demagogico è quello della sperequazione tra Regioni del Nord e Regioni del Sud.
Lei, senatore Servello si batte da una vita per l’unità e la coesione della nazione. Quindi, se si impegna per il “sì”, vuol proprio dire che certi allarmismi sono solo fumo negli occhi, no? Si, quella di Bassolino e di certi meridionalisti dell’ultimora è demagogia allo stato puro. Ha fatto bene a ricordare il mio percorso politico. Figuriamoci se uno con il mio passato potrebbe dire sì a una riforma avendo anche solo il più piccolo sospetto che tale riforma possa spaccare il Paese. Parliamo piuttosto di cose serie e concrete. Nel testo della legge c’è un richiamo esplicito e chiaro all’unità dello Stato e all’interesse nazionale.
Cosa vuol dire in pratica? Innanzi tutto il fatto che non ci saranno Regioni a due velocità. La clausola dell’interesse nazionale fa sì che tutte avranno garantite le stesse opportunità nel quadro dell’equità, solidarietà e sviluppo sociale. Prima dell’entrata in vigore, nel 2011, c’è tutto il tempo di calibrare l’intervento dello Stato prevedendo un fondo perequativo. E poi vorrei precisare che, quello previsto dalla riforma, non è un vero e proprio federalismo, quanto piuttosto un trasferimento di funzioni dallo Stato alle Regioni nell’organizzazione di servizi essenziali come la sanità, la scuola e la polizia locale.
Ma ci sarà pure qualcosa che non la convince del tutto in cinquantasette articoli che cambiano…Guardi, l’intero impianto della legge di riforma è coerente e le varie parti si tengono bene insieme. Dovendo trovare punti deboli, direi che possono annidarsi nel nuovo Senato. Andrebbe meglio precisata la distinzione di funzioni rispetto alla Camera. E questo per snellire il processo legislativo, come è nei principi ispiratori della riforma. La fine del bicameralismo perfetto dovrebbe servire proprio a darci un iter di approvazione delle leggi più rapido ed efficiente.
Insomma, esistono comunque margini di miglioramento, anche dopo il 26 giugno. Certo che esistono, certo che si può ancora intervenire. Quelli che dicono “prendere o lasciare” sono in malafede. Gli elettori sono chiamati a giudicare l’insieme della riforma e i suoi principi ispiratori. Ma nulla vieta che si possa intervenire qua e là per correggere qualche singolo punto difettoso. Abbiamo cinque anni per apportare miglioramenti. Deve essere però chiaro un concetto.
Quale concetto? O adesso o mai più. Chissà quanto dovremmo attendere ancora prima di riavere un’occasione del genere. Come minimo dovremmo aspettare un’altra legislatura. E’ chiaro come il sole che il centrosinistra vuole lasciare tutto così com’è. Non dico che non vi siano forze riformiste nell’ambito dell’Unione. Ma proprio per questo è importante e strategico che vinca il “sì”. Se vincesse il “no”, è evidente che queste forze verrebbero soverchiate dagli immobilismi, che possono far valere il loro potere di interdizione. E poi guardi, se la legge di riforma venisse bocciata, staremmo comunque peggio di come stiamo oggi, perché tornerebbe in vigore la modifica del Titolo V approvata nel 2001, dal centrosinistra, con appena cinque voti di maggioranza. Ci ritroveremmo cioè con una “riforma” piena di storture.
Lei è stato tra i commissari della Bicamerale presieduta da D’Alema. Che insegnamento ne ha tratto? Che non si possono fare le riforme finché rimane forte il condizionamento della politica. Quella Bicamerale lavorò bene. Ma al momento decisivo naufragò per i veti incrociati tra maggioranza e opposizione sulla questione della giustizia. Anche per questo dico che oggi abbiamo un’occasione storica. Pensi solo al fatto che un Parlamento ha deciso la propria autoriduzione di 177 parlamentari. E’ qualcosa che ha del miracoloso. E appare tale anche osservando il comportamento dell’attuale maggioranza, che ha moltiplicato poltrone e strapuntini. No, il centrosinistra non ha voglia di riformare nulla e non riformerà un bel nulla.
E che mi dice, senatore Servello, del premier forte? C’è chi dice che non ha precedenti e che sarebbe una specie di dittatore. Questa è un’altra favola messa in giro da chi vuole che tutto resti così com’è. Ma quale dittatura!La nostra riforma prevede la sfiducia costruttiva, come accade in Germania. Se il premier non ha più la fiducia del Parlamento, se ne deve indicare un altro, sempre però nell’ambito della stessa maggioranza. In caso contrario, si torna alle urne. La norma antiribaltone è uno dei cardini della legge. Ecco perché la sinistra non la vuole.
Possiamo dire, in conclusione, che con questa riforma lo scettro torna ai cittadini? Esatto. La legge è stata fatta proprio per i cittadini. Devono avere la garanzia che, se eleggono una maggioranza, questa non potrà più cambiare nel corso della legislatura. Altrimenti, i cittadini utilizzano nuovamente lo scettro ed esercitano la loro sovranità tornando a votare. Però c’è ancora un punto che mi preme di mettere in risalto.
Vale a dire? Che per la prima volta, dal 1947, ci troviamo di fronte a una vera riforma della Costituzione, una legge cioè che contiene elementi realmente innovativi.
E’ un’occasione storica, insomma. Si, storica. E non lasciamocela sfuggire.
SI VOTA SI
6/09/2006
IL 25 E 26 GIUGNO VOTIAMO SI'
IL VIDEO MESSAGGIO DI GIANFRANCO FINI
Questo il quesito:
«Approvate il testo della legge costituzionale concernente "Modifiche alla Parte II della Costituzione" approvato dal Parlamento e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 269 del 18 novembre 2005 ?» (clicca qui)
«Approvate il testo della legge costituzionale concernente "Modifiche alla Parte II della Costituzione" approvato dal Parlamento e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 269 del 18 novembre 2005 ?» (clicca qui)
ATTENZIONE: nel referendum confermativo, detto anche costituzionale o sospensivo, si prescinde dal quorum, ossia si procede al conteggio dei voti validamente espressi indipendentemente se abbia partecipato o meno alla consultazione la maggioranza degli aventi diritto, a differenza pertanto da quanto avviene nel referendum abrogativo. ECCO PERCHE' OCCORRE ANDARE A VOTARE.
"Il referendum costituzionale avrà un valore politico immediato e un effetto più generale e duraturo, entrambi potenti... La vittoria del sì o del no referendario è in grado di stabilire da subito il successo o il fallimento del nuovo governo...(clicca qui)"
COSA CAMBIA (clicca qui).
6/06/2006
FERMIAMOCI A RIFLETTERE
I superstipendi dei manager
5 giugno2006 - CorrierEconomia - di Pier Luigi Celli
Una casta che guadagna troppo: anche 50 volte più degli impiegati. Con effetti devastanti e non ancora misurati
Siamo portati a dare alla politica molte delle responsabilità che investono il degrado del vivere civile e la corrosione dei parametri di riferimento etici che hanno indebolito priorità e valori individuali. Eppure, se guardiamo al mondo delle imprese troviamo elementi di riflessione che non ci portano molto lontano da analoghi pensieri amari.
Abbiamo assistito, negli anni recenti, ad una espansione dei livelli retributivi, del management al vertice dell' impresa, che non ha, razionalmente, alcun rapporto lineare coi risultati reali. Soprattutto se si considera che questi, quando presenti, sono pressoché tutti in attività largamente protette, vere e proprie rendite di posizione che, come è facile vedere, pochissimo hanno contribuito allo sviluppo economico del Paese.
Si è venuta formando un'élite privata, beneficiata da risorse che hanno cambiato non solo la vita dei fortunati e abili interessati, ma hanno potenzialmente modificato aspettative e prospettive nel tenore di vita di intere generazioni familiari a venire. Vere e proprie fortune di guerra. Se il differenziale tra retribuzione normale, diciamo da impiegato o piccolo dirigente, e quello delle posizioni di vertice in azienda o banche è di 1 a 50, perché meravigliarsi poi se nascono dei cattivi pensieri?
Con l'affermarsi di distanze incolmabili sul versante retributivo, cade, innanzitutto, la simmetria della fedeltà tra vertice e corpo aziendale, nel senso che l'eccesso è comunque vissuto come un tradimento dei principi di equità. Si rafforza, di conseguenza, un principio di «dissociazione» (proprio in chi si sente ormai permanentemente marginale) che lavora in maniera sorda, da un lato, sulla affettività scarsamente evoluta di quanti sono esclusi dai percorsi che contano e, dall'altro, abilita astuzie puramente strumentali, volte a garantire la sopravvivenza e a trarre benefici opportunistici.
La sordità di certe organizzazioni, la riorganizzazione continua degli assetti, la pesantezza di movimento e la diaspora (provocata o di iniziativa autonoma) delle risorse, soprattutto intermedie, riflette in gran parte questa sconnessione crescente tra valori dichiarati e interpretazione numerica degli stessi; tra economia reale e impressione diffusa di assalto alla diligenza. Con una ricaduta, sulle psicologie individuali, potenzialmente deleteria per le imprese.
Perché il dipendente normale, trattato come commodity, marginale e sostituibile (e, d'altra parte, la differenza di scala retributiva certifica a oltranza la sua irrilevanza) finirà rapidamente per percepirsi lui stesso come tale, con una immagine di sé degradata fino al punto di non meritare la propria stessa stima e il proprio rispetto. Come tutte le profezie che si autoavverano, questa prospettiva lo renderà pressappoco inutile e, dunque, inutilizzabile. Un peso, con la testa altrove.
Ma vi è un danno anche maggiore, generato da questa bolla salariale che specula sulle aspettative artificiali dei valori di Borsa, quasi sempre determinati da analisti in cerca perenne dell'ultimo paradiso. Ed è rappresentato dalla tentazione, largamente presente ormai, di costruire, in vitro, manager «da notizia»: quelli, cioè, che possono essere venduti con successo nel mercato degli indici a breve, selezionati secondo parametri che piani strategici e indicatori di budget hanno ormai codificato con noiosa routine e ampia connivenza di audience.
Il rischio, che siano tutti uguali, più o meno cloni di qualche grande scuola, è meno importante dell'incapacità, che una impostazione di questo tipo si porta dietro, di fare scuola, di produrre allievi, di allargare il tessuto di competenze e di storie al di là del proprio personale successo. Di costruire un gruppo. È un altro fenomeno connesso a questo esplodere di compensi disorganici. La loro mediatizzazione finisce per proporre modelli che incidono significativamente sulle aspettative di quanti fanno dell'investimento sulla carriera e sul curriculum una ragionevole tavola di salvezza per le proprie ambizioni professionali.
Emergono così i cercatori di status «prematuri», i teorici delle scorciatoie, gli affiliati estatici. Tutta una fauna premanageriale che intasa i files dei cacciatori di teste e gioca a dama coi percorsi e i luoghi canonici delle frequentazioni che contano. Si va a vela, appena si può. O anche allo stadio. Anche la vicinanza dei conti a sei zeri (in euro, s'intende) vivifica le speranze, tonifica le aspettative e accende l'immaginazione. Determinando, purtroppo, comportamenti adeguati allo stile. L'ideologia delle stock options e del profit sharing orienta le teste sul valore dell'equity ed è totalmente eterodiretta: il «fuori», (quello che si pensa fuori, quello che si comunica fuori, quello che si muove fuori) è immensamente più rilevante del «dentro», di quello che succede agli uomini e all'organizzazione all'interno.
Questa tenderà a disporsi «a corte», come in tutti i contesti in cui l'ossequio diviene preminente. Gli uomini comuni, quelli i cui destini girano al di sotto dei livelli che contano, finiranno per capire che se non c'è equità nella distribuzione delle risorse è inutile seguire delle regole: tanto vale imboccare anche precarie scorciatoie al successo. Fioriscono così fortune anche modeste, ma sempre in tiro su modelli che non hanno nulla a che spartire con la professione, la serietà, l'impegno nel tempo. Ognuno sarà portato a costruirsi, a spese di altri, la sua personale dotazione di stock options equivalenti, magari di frodo o, quantomeno, senza alcun rispetto sociale.
Avremo dunque nuovi idoli, un po' celebrati e un po' esecrati, in genere imperturbabili. Salvo quando, all'interno di imprese che sembravano inossidabili, scoppiano vere e proprie lotte tribali, con epurazioni, tagli di teste e catarsi finale. E' il ciclo della natura che ripensa se stessa, distruggendo gli stessi uomini che l'hanno a lungo interpretata. Ma quanti hanno perso l'onore, ancor prima del posto?
5 giugno2006 - CorrierEconomia - di Pier Luigi Celli
Una casta che guadagna troppo: anche 50 volte più degli impiegati. Con effetti devastanti e non ancora misurati
Siamo portati a dare alla politica molte delle responsabilità che investono il degrado del vivere civile e la corrosione dei parametri di riferimento etici che hanno indebolito priorità e valori individuali. Eppure, se guardiamo al mondo delle imprese troviamo elementi di riflessione che non ci portano molto lontano da analoghi pensieri amari.
Abbiamo assistito, negli anni recenti, ad una espansione dei livelli retributivi, del management al vertice dell' impresa, che non ha, razionalmente, alcun rapporto lineare coi risultati reali. Soprattutto se si considera che questi, quando presenti, sono pressoché tutti in attività largamente protette, vere e proprie rendite di posizione che, come è facile vedere, pochissimo hanno contribuito allo sviluppo economico del Paese.
Si è venuta formando un'élite privata, beneficiata da risorse che hanno cambiato non solo la vita dei fortunati e abili interessati, ma hanno potenzialmente modificato aspettative e prospettive nel tenore di vita di intere generazioni familiari a venire. Vere e proprie fortune di guerra. Se il differenziale tra retribuzione normale, diciamo da impiegato o piccolo dirigente, e quello delle posizioni di vertice in azienda o banche è di 1 a 50, perché meravigliarsi poi se nascono dei cattivi pensieri?
Con l'affermarsi di distanze incolmabili sul versante retributivo, cade, innanzitutto, la simmetria della fedeltà tra vertice e corpo aziendale, nel senso che l'eccesso è comunque vissuto come un tradimento dei principi di equità. Si rafforza, di conseguenza, un principio di «dissociazione» (proprio in chi si sente ormai permanentemente marginale) che lavora in maniera sorda, da un lato, sulla affettività scarsamente evoluta di quanti sono esclusi dai percorsi che contano e, dall'altro, abilita astuzie puramente strumentali, volte a garantire la sopravvivenza e a trarre benefici opportunistici.
La sordità di certe organizzazioni, la riorganizzazione continua degli assetti, la pesantezza di movimento e la diaspora (provocata o di iniziativa autonoma) delle risorse, soprattutto intermedie, riflette in gran parte questa sconnessione crescente tra valori dichiarati e interpretazione numerica degli stessi; tra economia reale e impressione diffusa di assalto alla diligenza. Con una ricaduta, sulle psicologie individuali, potenzialmente deleteria per le imprese.
Perché il dipendente normale, trattato come commodity, marginale e sostituibile (e, d'altra parte, la differenza di scala retributiva certifica a oltranza la sua irrilevanza) finirà rapidamente per percepirsi lui stesso come tale, con una immagine di sé degradata fino al punto di non meritare la propria stessa stima e il proprio rispetto. Come tutte le profezie che si autoavverano, questa prospettiva lo renderà pressappoco inutile e, dunque, inutilizzabile. Un peso, con la testa altrove.
Ma vi è un danno anche maggiore, generato da questa bolla salariale che specula sulle aspettative artificiali dei valori di Borsa, quasi sempre determinati da analisti in cerca perenne dell'ultimo paradiso. Ed è rappresentato dalla tentazione, largamente presente ormai, di costruire, in vitro, manager «da notizia»: quelli, cioè, che possono essere venduti con successo nel mercato degli indici a breve, selezionati secondo parametri che piani strategici e indicatori di budget hanno ormai codificato con noiosa routine e ampia connivenza di audience.
Il rischio, che siano tutti uguali, più o meno cloni di qualche grande scuola, è meno importante dell'incapacità, che una impostazione di questo tipo si porta dietro, di fare scuola, di produrre allievi, di allargare il tessuto di competenze e di storie al di là del proprio personale successo. Di costruire un gruppo. È un altro fenomeno connesso a questo esplodere di compensi disorganici. La loro mediatizzazione finisce per proporre modelli che incidono significativamente sulle aspettative di quanti fanno dell'investimento sulla carriera e sul curriculum una ragionevole tavola di salvezza per le proprie ambizioni professionali.
Emergono così i cercatori di status «prematuri», i teorici delle scorciatoie, gli affiliati estatici. Tutta una fauna premanageriale che intasa i files dei cacciatori di teste e gioca a dama coi percorsi e i luoghi canonici delle frequentazioni che contano. Si va a vela, appena si può. O anche allo stadio. Anche la vicinanza dei conti a sei zeri (in euro, s'intende) vivifica le speranze, tonifica le aspettative e accende l'immaginazione. Determinando, purtroppo, comportamenti adeguati allo stile. L'ideologia delle stock options e del profit sharing orienta le teste sul valore dell'equity ed è totalmente eterodiretta: il «fuori», (quello che si pensa fuori, quello che si comunica fuori, quello che si muove fuori) è immensamente più rilevante del «dentro», di quello che succede agli uomini e all'organizzazione all'interno.
Questa tenderà a disporsi «a corte», come in tutti i contesti in cui l'ossequio diviene preminente. Gli uomini comuni, quelli i cui destini girano al di sotto dei livelli che contano, finiranno per capire che se non c'è equità nella distribuzione delle risorse è inutile seguire delle regole: tanto vale imboccare anche precarie scorciatoie al successo. Fioriscono così fortune anche modeste, ma sempre in tiro su modelli che non hanno nulla a che spartire con la professione, la serietà, l'impegno nel tempo. Ognuno sarà portato a costruirsi, a spese di altri, la sua personale dotazione di stock options equivalenti, magari di frodo o, quantomeno, senza alcun rispetto sociale.
Avremo dunque nuovi idoli, un po' celebrati e un po' esecrati, in genere imperturbabili. Salvo quando, all'interno di imprese che sembravano inossidabili, scoppiano vere e proprie lotte tribali, con epurazioni, tagli di teste e catarsi finale. E' il ciclo della natura che ripensa se stessa, distruggendo gli stessi uomini che l'hanno a lungo interpretata. Ma quanti hanno perso l'onore, ancor prima del posto?
6/02/2006
VERGOGNA
Oggi il Ministro della Giustizia (!) Clemente Mastella e il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano hanno concesso la grazia ad Ovidio Bompressi che il 17 maggio del 1972 ha ammazzato il Commissario Luigi Calabresi, allora trentaquatrenne, su ordine di due dirigenti di Lotta Continua, Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani.
Alla domanda del giornalista su come mai la Famiglia Calabresi non sia stata avvisata prima che la notizia divenisse di pubblico dominio, facendo spallucce, Mastella si scusa per non averci pensato...
Il 12 maggio 2004 l'allora Presidente Ciampi conferisce la Medaglia d'oro al merito civile a Luigi Calabresi, alla memoria. Questa la motivazione: "Fatto oggetto di ignobile campagna denigratoria, mentre si recava sul posto di lavoro, veniva barbaramente trucidato con colpi d’arma da fuoco esplosigli contro in un vile e proditorio attentato. Mirabile esempio di elette virtù civiche ed alto senso del dovere. 7 maggio 1972 - Milano"
Oggi l'attuale Presidente concede la grazia al suo assassino.
Effetti collaterali dell'alternanza democratica.
la vicenda giudiziaria
Alla domanda del giornalista su come mai la Famiglia Calabresi non sia stata avvisata prima che la notizia divenisse di pubblico dominio, facendo spallucce, Mastella si scusa per non averci pensato...
Il 12 maggio 2004 l'allora Presidente Ciampi conferisce la Medaglia d'oro al merito civile a Luigi Calabresi, alla memoria. Questa la motivazione: "Fatto oggetto di ignobile campagna denigratoria, mentre si recava sul posto di lavoro, veniva barbaramente trucidato con colpi d’arma da fuoco esplosigli contro in un vile e proditorio attentato. Mirabile esempio di elette virtù civiche ed alto senso del dovere. 7 maggio 1972 - Milano"
Oggi l'attuale Presidente concede la grazia al suo assassino.
Effetti collaterali dell'alternanza democratica.
la vicenda giudiziaria
6/01/2006
1°: ANDARE A VOTARE SI' AL REFERENDUM
Trattandosi di una materia articolata e complessa, trovo quanto mai opportuno segnalarvi l'articolo di Angelo Panebianco pubblicato sul Corriere di oggi: «Una scelta per proseguire le riforme. O vincono i conservatori a oltranza» Le norme sul Senato sono il principale punto debole Condivido molte idee di Barbera e Ceccanti, ma il «no» toglierebbe ogni spazio.
Per decidere come comportarsi nel referendum costituzionale del 25 giugno credo si debbano immaginare gli scenari che discenderebbero, rispettivamente, da una vittoria del sì e da una vittoria del no.
Pensiamo a che cosa accadrebbe se vincesse il sì. Le parti più importanti della riforma entrerebbero in vigore solo nel 2011. Ci sarebbe il tempo per intervenire sugli aspetti più insoddisfacenti del testo: in particolare, per modificare composizione e prerogative del Senato (così come è congegnato è il principale punto debole della riforma). Si noti che molti esponenti del centrodestra si sono dichiarati consapevoli della necessità di apportare modifiche su questo e altri punti. In caso di vittoria del sì, si aprirebbe dunque lo spazio (con cinque anni di tempo per raggiungere un accordo) per una trattativa fra centrosinistra e centrodestra al fine di migliorare il testo. Una volta fatto ciò avremo finalmente la riforma costituzionale vanamente inseguita per un quarto di secolo. Avremo un nuovo ordinamento caratterizzato da un premier forte, dalla fine del bicameralismo perfetto (due Camere con uguali poteri, causa di tante inefficienze), una drastica riduzione del numero dei parlamentari e una correzione abbastanza ragionevole (per lo più, in senso centralista) della pessima devolution (la riforma del titolo V) voluta dal centrosinistra nel 2001.
Immaginiamo ora che cosa accadrebbe se prevalesse il no. Accadrebbe che la Costituzione tornerebbe ad essere immodificabile per parecchi decenni a venire. È il vero punto debole del manifesto dei «riformatori per il no», lanciato da due costituzionalisti di cui chi scrive ha grande stima, Augusto Barbera e Stefano Ceccanti. Molte idee contenute nel manifesto, sia sui gravi difetti della Costituzione vigente sia su quelli del testo varato dal centrodestra, sono, almeno per chi scrive, condivisibili. Ciò che non è condivisibile è la conclusione, la tesi secondo cui, in caso di vittoria del no, ci sarebbe ancora lo spazio per riprendere a breve termine la strada della riforma costituzionale.
Non è così. Per almeno tre ragioni.
In primoluogo, perché, come dimostrano gli argomenti usati dai promotori del referendum, è tuttora molto forte in questo Paese l'area dei conservatori costituzionali ad oltranza, persone che (legittimamente) ritengono la Costituzione vigente la migliore delle Costituzioni possibili e che, per difenderla, non hanno neppure esitato a rispolverare l'ideologia resistenziale (sembra, ad esempio, che per costoro il premierato sia una specie di tradimento dei valori resistenziali, l'apertura delle porte al fascismo, eccetera). In caso di vittoria del no, essi si appellerebbero legittimamente al responso degli italiani per bloccare ogni nuova ipotesi di riforma.
La seconda ragione è che nella maggioranza di centrosinistra ci sono molti gruppi contrarissimi al premierato e questi gruppi farebbero valere il ruolo che svolgono ai fini della stabilità del governo per bloccare nuovi tentativi di riforma.
Da ultimo, non sarebbe più possibile né togliere al Senato il potere di conferire la fiducia al governo né ridurre il numero dei parlamentari. I senatori, e i parlamentari in genere, lo impedirebbero. Se queste misure sono passate con la riforma del centrodestra ciò è accaduto per una specie di miracolo, probabilmente perché molti parlamentari del centrodestra non credevano in cuor loro che la riforma sarebbe davvero andata in porto. È difficile che imiracoli si ripetano due volte.
Due parole, infine, sulla devolution. Premesso che chi scrive trova comunque insoddisfacente qualunque intervento in questo campo che eluda gli aspetti fiscali, resta che, se si confrontano i due testi, il titolo V riformato dal centrosinistra oggi in vigore e il testo della riforma, si scopre che la devolution 1 (la riforma del centrosinistra) è assai più confusa e pasticciata della devolution 2 (quella del centrodestra). Quest'ultima, per lo meno, definisce meglio le competenze esclusive delle Regioni e ricentralizza (reintroducendo il principio dell'interesse nazionale) materie che, insensatamente, il centrosinistra aveva attribuito alla competenza congiunta di Regioni e Stato. Per queste ragioni, chi scrive voterà sì.
Per decidere come comportarsi nel referendum costituzionale del 25 giugno credo si debbano immaginare gli scenari che discenderebbero, rispettivamente, da una vittoria del sì e da una vittoria del no.
Pensiamo a che cosa accadrebbe se vincesse il sì. Le parti più importanti della riforma entrerebbero in vigore solo nel 2011. Ci sarebbe il tempo per intervenire sugli aspetti più insoddisfacenti del testo: in particolare, per modificare composizione e prerogative del Senato (così come è congegnato è il principale punto debole della riforma). Si noti che molti esponenti del centrodestra si sono dichiarati consapevoli della necessità di apportare modifiche su questo e altri punti. In caso di vittoria del sì, si aprirebbe dunque lo spazio (con cinque anni di tempo per raggiungere un accordo) per una trattativa fra centrosinistra e centrodestra al fine di migliorare il testo. Una volta fatto ciò avremo finalmente la riforma costituzionale vanamente inseguita per un quarto di secolo. Avremo un nuovo ordinamento caratterizzato da un premier forte, dalla fine del bicameralismo perfetto (due Camere con uguali poteri, causa di tante inefficienze), una drastica riduzione del numero dei parlamentari e una correzione abbastanza ragionevole (per lo più, in senso centralista) della pessima devolution (la riforma del titolo V) voluta dal centrosinistra nel 2001.
Immaginiamo ora che cosa accadrebbe se prevalesse il no. Accadrebbe che la Costituzione tornerebbe ad essere immodificabile per parecchi decenni a venire. È il vero punto debole del manifesto dei «riformatori per il no», lanciato da due costituzionalisti di cui chi scrive ha grande stima, Augusto Barbera e Stefano Ceccanti. Molte idee contenute nel manifesto, sia sui gravi difetti della Costituzione vigente sia su quelli del testo varato dal centrodestra, sono, almeno per chi scrive, condivisibili. Ciò che non è condivisibile è la conclusione, la tesi secondo cui, in caso di vittoria del no, ci sarebbe ancora lo spazio per riprendere a breve termine la strada della riforma costituzionale.
Non è così. Per almeno tre ragioni.
In primoluogo, perché, come dimostrano gli argomenti usati dai promotori del referendum, è tuttora molto forte in questo Paese l'area dei conservatori costituzionali ad oltranza, persone che (legittimamente) ritengono la Costituzione vigente la migliore delle Costituzioni possibili e che, per difenderla, non hanno neppure esitato a rispolverare l'ideologia resistenziale (sembra, ad esempio, che per costoro il premierato sia una specie di tradimento dei valori resistenziali, l'apertura delle porte al fascismo, eccetera). In caso di vittoria del no, essi si appellerebbero legittimamente al responso degli italiani per bloccare ogni nuova ipotesi di riforma.
La seconda ragione è che nella maggioranza di centrosinistra ci sono molti gruppi contrarissimi al premierato e questi gruppi farebbero valere il ruolo che svolgono ai fini della stabilità del governo per bloccare nuovi tentativi di riforma.
Da ultimo, non sarebbe più possibile né togliere al Senato il potere di conferire la fiducia al governo né ridurre il numero dei parlamentari. I senatori, e i parlamentari in genere, lo impedirebbero. Se queste misure sono passate con la riforma del centrodestra ciò è accaduto per una specie di miracolo, probabilmente perché molti parlamentari del centrodestra non credevano in cuor loro che la riforma sarebbe davvero andata in porto. È difficile che imiracoli si ripetano due volte.
Due parole, infine, sulla devolution. Premesso che chi scrive trova comunque insoddisfacente qualunque intervento in questo campo che eluda gli aspetti fiscali, resta che, se si confrontano i due testi, il titolo V riformato dal centrosinistra oggi in vigore e il testo della riforma, si scopre che la devolution 1 (la riforma del centrosinistra) è assai più confusa e pasticciata della devolution 2 (quella del centrodestra). Quest'ultima, per lo meno, definisce meglio le competenze esclusive delle Regioni e ricentralizza (reintroducendo il principio dell'interesse nazionale) materie che, insensatamente, il centrosinistra aveva attribuito alla competenza congiunta di Regioni e Stato. Per queste ragioni, chi scrive voterà sì.
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