Editoriale pubblicato sul Corriere della Sera del 28 settembre 2011
di Angelo Panebianco
Se Berlusconi, prendendo atto che il suo ciclo si è esaurito, che la sua posizione è ormai diventata insostenibile anche per l'immagine internazionale del Paese, lasciasse la guida del governo (ma senza favorire ribaltoni, i quali fanno male alla democrazia) si aprirebbe una possibilità: si potrebbe ricominciare a discutere - non dico serenamente ma, almeno, seriamente - del ruolo della magistratura in questo Paese. Al momento, con Berlusconi premier, ciò non si può fare: gli animi sono troppo incattiviti, le passioni troppo viscerali, le partigianerie troppo smaccate e cieche. Solo se Berlusconi lascia, si potrà forse ricominciare a discutere nel merito di cose come l'uso politico delle intercettazioni e la fine che hanno fatto, grazie al famoso circo mediatico-giudiziario, la tutela della privacy , la presunzione di non colpevolezza, eccetera eccetera.
Chi pensa che, andato via Berlusconi, il rapporto fra la politica e la magistratura tornerà facilmente, e spontaneamente, alla normalità, simile a quello che si dà nelle altre democrazie occidentali, non conosce l'evoluzione di quei rapporti. Quando gli storici del futuro indagheranno sull'argomento sceglieranno probabilmente come data emblematica dell'inizio del «grande scontro» fra magistratura e classe politica, il 3 dicembre del 1985: l'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga inviò al Consiglio superiore della magistratura una lettera in cui vietava al Consiglio stesso di mettere ai voti una censura nei confronti del presidente del Consiglio Bettino Craxi. Cossiga, Costituzione alla mano, negò che il Csm fosse dotato di un tale potere di censura. I settori più militanti della magistratura, spalleggiati dall'allora partito comunista, se la legarono al dito. Alcuni anni dopo, Cossiga diventò oggetto di un attacco concentrico della magistratura militante e del partito comunista. Come mai al Csm era passato per la testa di avere il potere di censurare un primo ministro? Perché negli anni precedenti, per varie ragioni (alcune leggi che avevano notevolmente rafforzato sia il ruolo del Csm sia i poteri delle Procure, il prestigio accumulato dalla magistratura durante la lotta al terrorismo), la magistratura, intesa come «corpo», si era notevolmente irrobustita. Al punto che i suoi settori più politicizzati ritenevano di essere ormai così forti da poter andare allo scontro aperto con la politica.
L'occasione arrivò, grazie alla fine della guerra fredda, con le inchieste sulla corruzione, con Mani Pulite. La corruzione c'era ed era tanta (ma era «di sistema» e per questo avrebbe richiesto una soluzione politica, non penale: lo scrissi allora e non ho mai cambiato idea). Demolendo (ma selettivamente: il Pci si salvò) la vecchia classe politica, la magistratura inquirente aprì quel vuoto di potere da cui sarebbe nata la cosiddetta Seconda Repubblica. Il resto è semplicemente la storia d'Italia dal 1994 (anno dell'ingresso in politica di Berlusconi, nonché dell'avviso di garanzia, rivelato da uno scoop del Corriere , che lo raggiunse a Napoli nel mezzo di una conferenza internazionale) ad oggi.
Poiché la presunzione di non colpevolezza dovrebbe valere per chiunque (anche, guarda un po', per Berlusconi) vedremo in futuro cosa diranno le sentenze (se sentenze ci saranno) in relazione alle inchieste più recenti. Ma il punto politico è che, solo se Berlusconi se ne va, le tante anomalie del rapporto fra magistratura e politica, il grave squilibrio che si è ormai da molto tempo determinato fra democrazia rappresentativa e potere giudiziario, potranno essere discussi senza che tutto venga subito ricondotto al conflitto fra berlusconiani e antiberlusconiani.
Gli amici di Berlusconi ribatteranno: ma in questo modo la si darà vinta proprio ai quei settori della magistratura che dell'attacco al potere politico-rappresentativo hanno fatto la ragione stessa del proprio agire giudiziario. Non credo. La magistratura oggi non dispone più del prestigio di cui godeva all'epoca di Mani Pulite. La sua reputazione, stando ai sondaggi, non è cattiva come quella della classe politica ma ci va ormai molto vicino. Persino il più ottuso dei cittadini capisce che centomila intercettazioni per una inchiesta sono cose da pazzi (e il Csm zitto), persino il più fiducioso rimane disorientato vedendo Procure che si sbranano e inchieste che rimbalzano come palline da ping pong fra Napoli, Roma e Bari. La magistratura è ormai altrettanto logorata della classe politica. I magistrati dotati di più buon senso lo capiscono benissimo. Per questo non dovrebbe essere molto lontano il momento in cui diventerà possibile ristabilire alcune regole (per esempio, quella che vieta di intercettare, anche in modo indiretto, chi occupa cariche istituzionali) da tempo saltate. Serve alla magistratura, serve alla classe politica. E serve al Paese che, tra l'altro, ha il non piccolo problema di convincere gli investitori a fidarsi di nuovo di gente come noi.
9/19/2011
A tempo perso faccio il direttore di giornale, stronzetti (Il Foglio del 19.09.2011)
Berlusconi deve chiedere scusa per i contanti, per i telefonini peruviani, per gli aerei di stato, per le piccole intermediazioni da salotto, e contrattaccare, ma chi chiederà scusa per i titoli di Repubblica e degli altri giornali? Segui questo link per leggere l'articolo completo
9/15/2011
Lo scontro istituzionale che non serve al Paese (articolo di Stefano Folli)
pubblicato su Il Sole 24 Ore del 15/09/2011
Come il vapore nella pentola a pressione, il nervosismo politico cresce di ora in ora. Impossibile non accorgersene. L'immagine usata da Casini nel dibattito sulla manovra a Montecitorio («la Grecia è dietro l'angolo») viene, certo, da un esponente dell'opposizione: ma possiede una sua efficacia condivisa, anche se poi i punti di vista sul «che fare» divergono in modo drammatico.
L'ipotesi di un governo di unità nazionale (o di transizione, nella versione "soft") resta remota. Al pari dell'altra ipotesi che ne costituisce la logica premessa: il fatidico passo indietro di Berlusconi.
Se non accade un fatto nuovo, se non interviene un evento in grado di spezzare la teca di cristallo in cui è imprigionato l'equilibrio politico romano, la condizione di stasi può durare ancora a lungo. Magari non fino al termine della legislatura, nel 2013, ma abbastanza da snervare protagonisti e comprimari dello psicodramma che va in scena senza risparmio di energie degne di miglior causa.
L'emergenza economica è lì sul tavolo, con tutti i suoi nodi irrisolti. Un esecutivo stremato dall'operazione "pareggio di bilancio" dovrebbe adesso affrontare il mostro del debito pubblico, il vero freno dello sviluppo. Si delineano scenari quasi fantascientifici; 300-400 miliardi da raccogliere attraverso misure drastiche: una spietata patrimoniale, la dismissione del patrimonio statale, riforme strutturali radicali. Tutte cose che la classe politica non è mai riuscita nemmeno a concepire. Se davvero la Grecia è dietro l'angolo, chi avrebbe la forza e la volontà d'inoltrarsi nell'ignoto prima che sia troppo tardi? La domanda oggi non ha una risposta.
In ogni caso, il tema economico è solo metà del problema. L'altra metà riguarda il pasticcio giudiziario o para-giudiziario che domina le cronache e coinvolge il presidente del Consiglio in forme ormai asfissianti. Tracimano le intercettazioni e incalzano le procure.
Oggi è il turno delle conversazioni di Berlusconi con il faccendiere Lavitola. Per domani o dopo o per la prossima settimana ci si attende il peggio, se davvero dovessero esseri diffusi i nastri di cui tutti parlano in questi giorni, contenenti - così pare - pesanti riferimenti a uno o più leader europei.
È un abuso, un'operazione verità, una ferita masochistica inferta alla credibilità nazionale? Sull'uso delle intercettazioni ogni italiano ha maturato un'opinione. Ma sotto l'aspetto politico siamo nel più classico "cul de sac". Veleno puro sparso sulle istituzioni e nessuna soluzione concreta. Si cammina sul ciglio del burrone. Tanto è vero che ieri si è sfiorata una seria tensione istituzionale fra il presidente del Consiglio e il capo dello Stato, anche se non tutti se ne sono accorti.
Non c'è solo la questione dell'interrogatorio come «testimone» a cui Berlusconi è sollecitato con insistenza nell'ambito dell'inchiesta Tarantini: una vicenda che non trova ancora sbocco, ma che non può protrarsi all'infinito.
Il punto cruciale riguarda le intercettazioni e il fango che può derivarne una volta rese di pubblico dominio. Qui la minaccia, poi rientrata, di intervenire con un decreto d'urgenza volto a impedire la pubblicazione di certe frasi compromettenti ha dato un'idea dello stato di rabbia impotente e di frustrazione in cui si trova il premier. Ma anche del rischio che questo comporta. È evidente che Napolitano non firmerebbe un simile decreto. Ma un conflitto istituzionale sulle intercettazioni sarebbe devastante per il Paese: l'ultima disgrazia che ci si può augurare in quest'ora difficile.
È un bene che ieri sera l'ipotesi sia stata accantonata e che ciò sia avvenuto senza esporre più di tanto il capo dello Stato. Ma ogni giorno ha la sua pena. La guerra tra la magistratura e Berlusconi continua, gli strumenti per fermarla non ci sono o non vengono usati da chi di dovere. Lo scontro istituzionale resta sullo sfondo come un pericolo incombente. Non è quello che si può volere per l'Italia nel momento in cui la priorità dovrebbe essere solo una maggiore coesione nazionale. Viceversa c'è il rischio del cortocircuito, mentre la pentola a pressione comincia a sibilare.
Come il vapore nella pentola a pressione, il nervosismo politico cresce di ora in ora. Impossibile non accorgersene. L'immagine usata da Casini nel dibattito sulla manovra a Montecitorio («la Grecia è dietro l'angolo») viene, certo, da un esponente dell'opposizione: ma possiede una sua efficacia condivisa, anche se poi i punti di vista sul «che fare» divergono in modo drammatico.
L'ipotesi di un governo di unità nazionale (o di transizione, nella versione "soft") resta remota. Al pari dell'altra ipotesi che ne costituisce la logica premessa: il fatidico passo indietro di Berlusconi.
Se non accade un fatto nuovo, se non interviene un evento in grado di spezzare la teca di cristallo in cui è imprigionato l'equilibrio politico romano, la condizione di stasi può durare ancora a lungo. Magari non fino al termine della legislatura, nel 2013, ma abbastanza da snervare protagonisti e comprimari dello psicodramma che va in scena senza risparmio di energie degne di miglior causa.
L'emergenza economica è lì sul tavolo, con tutti i suoi nodi irrisolti. Un esecutivo stremato dall'operazione "pareggio di bilancio" dovrebbe adesso affrontare il mostro del debito pubblico, il vero freno dello sviluppo. Si delineano scenari quasi fantascientifici; 300-400 miliardi da raccogliere attraverso misure drastiche: una spietata patrimoniale, la dismissione del patrimonio statale, riforme strutturali radicali. Tutte cose che la classe politica non è mai riuscita nemmeno a concepire. Se davvero la Grecia è dietro l'angolo, chi avrebbe la forza e la volontà d'inoltrarsi nell'ignoto prima che sia troppo tardi? La domanda oggi non ha una risposta.
In ogni caso, il tema economico è solo metà del problema. L'altra metà riguarda il pasticcio giudiziario o para-giudiziario che domina le cronache e coinvolge il presidente del Consiglio in forme ormai asfissianti. Tracimano le intercettazioni e incalzano le procure.
Oggi è il turno delle conversazioni di Berlusconi con il faccendiere Lavitola. Per domani o dopo o per la prossima settimana ci si attende il peggio, se davvero dovessero esseri diffusi i nastri di cui tutti parlano in questi giorni, contenenti - così pare - pesanti riferimenti a uno o più leader europei.
È un abuso, un'operazione verità, una ferita masochistica inferta alla credibilità nazionale? Sull'uso delle intercettazioni ogni italiano ha maturato un'opinione. Ma sotto l'aspetto politico siamo nel più classico "cul de sac". Veleno puro sparso sulle istituzioni e nessuna soluzione concreta. Si cammina sul ciglio del burrone. Tanto è vero che ieri si è sfiorata una seria tensione istituzionale fra il presidente del Consiglio e il capo dello Stato, anche se non tutti se ne sono accorti.
Non c'è solo la questione dell'interrogatorio come «testimone» a cui Berlusconi è sollecitato con insistenza nell'ambito dell'inchiesta Tarantini: una vicenda che non trova ancora sbocco, ma che non può protrarsi all'infinito.
Il punto cruciale riguarda le intercettazioni e il fango che può derivarne una volta rese di pubblico dominio. Qui la minaccia, poi rientrata, di intervenire con un decreto d'urgenza volto a impedire la pubblicazione di certe frasi compromettenti ha dato un'idea dello stato di rabbia impotente e di frustrazione in cui si trova il premier. Ma anche del rischio che questo comporta. È evidente che Napolitano non firmerebbe un simile decreto. Ma un conflitto istituzionale sulle intercettazioni sarebbe devastante per il Paese: l'ultima disgrazia che ci si può augurare in quest'ora difficile.
È un bene che ieri sera l'ipotesi sia stata accantonata e che ciò sia avvenuto senza esporre più di tanto il capo dello Stato. Ma ogni giorno ha la sua pena. La guerra tra la magistratura e Berlusconi continua, gli strumenti per fermarla non ci sono o non vengono usati da chi di dovere. Lo scontro istituzionale resta sullo sfondo come un pericolo incombente. Non è quello che si può volere per l'Italia nel momento in cui la priorità dovrebbe essere solo una maggiore coesione nazionale. Viceversa c'è il rischio del cortocircuito, mentre la pentola a pressione comincia a sibilare.
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