8/25/2006

INTEGRAZIONE SENZA ITALIANO? IMPOSSIBILE

Se c'è un fatto da imparare e non dimenticare dal caso di Hina, è che il solo modo per realizzare una reale integrazione è insegnare l'italiano agli immigranti. E' il solo modo per garantire loro una reale integrazione. Integrazione sociale, lavorativa e culturale. Mi pare che nessun media si sia soffermato sul fatto che la madre di questa svenutrata ragazza ha tenuto una conferenza stampa avvalendosi di interpreti pachistani.
Invece di confondere le acque e spostare il problema del razzismo su uno scontro di religioni, SAREBBE MEGLIO PARTIRE DALL'ABC....OSSIA DALL'ITALIANO.
A seguire, poi, tutti gli altri discorsi.

OPPOSIZIONE

Vorrei lanciare una provocazione, che poi tanto provocazione non è. Mi piacerebbe molto che la CDL votasse NO alla missione in LIBANO. Abbiamo già sprecato un’occasione con la missione in Afghanistan. Non bruciamo anche la seconda.

Vedete: io penso che sicuramente il primo obiettivo di un politico responsabile deve essere il bene del Paese. E quindi voterei NO. NO ad ogni proposta dell’attuale Governo. ORA SÌ. Ora che a distanza di mesi dal fatidico 9 aprile L’UNIONE ha dimostrato esattamente le modalità con cui vuole governarci: assoluta mancanza d’ascolto di quella parte non certo esigua di Italiani che hanno votato la CDL ed okkupazione strategica di tutte le posizioni istituzionali e non, in modo chirurgico ed inesorabile. Per non parlare dei provvedimenti adottati sempre con la fiducia (il BERSANI vale per tutti) per "far fronte a tutti gli impegni"assunti in campagna elettorale.

Bene, è dal fatidico 9 aprile che li osservo: a questo punto, visto il loro modo di governarci, IO DICO NO A TUTTE LE LORO PROPOSTE. RITENGO SIA IL SOLO MODO PER PROTEGGERE IL NOSTRO PAESE. RICORDATEVI DELL’INDULTO E DELLE SUE “CONSUGUENZE” CHE CONTINUANO A RIEMPIRE LA STAMPA.
OPPOSIZIONE DURA ED INFLESSIBILE CON UN SOLO OBIETTIVO: MANDARLI A CASA!

8/10/2006

RIFORME: ABOLIRE LE PROVINCE

Con il post di oggi inizio la pubblicazione di una serie di articoli che lanciano e/o riprendono forti provocazioni perchè se ne possa discutere approfonditamente e senza remore, nel reciproco rispetto. Sebbene potranno essere un po' lunghi, dedicate loro una lettura attenta e non sottraetevi al dibattito.

Quello di oggi è stato pubblicato su Il Sole 24 Ore di mercoledì 9 agosto ed è: Trovare il coraggio di abolire le Province (di Gianfranco Fabi)

Coraggio. Se veramente si vuole modernizzare l’Italia non bastano i piccoli passi sulla strada dell’efficienza, non è sufficiente (anche se è molto utile) rendere effettiva la concorrenza e più aperto il mercato. In uno Stato in cui è molto facile aggiungere e sovrapporre appare encomiabile e degno di passare alla storia chi riesce ad abolire qualcosa. E così saremo eternamente grati a Vincenzo Visco che sarà pur responsabile delle ultime complicazioni fiscali, ma almeno quando ebbe la responsabilità dell’allora ministero delle Finanze riuscì ad abolire il bollo sulla patente. Ora si tratterebbe di mettere a punto un progetto un po’ più complesso, ma ancora più meritorio: quello di abolire le Province. Certo, l’idea non è nuova. Ogni tanto torna a galla e viene riproposta, ma viene immediatamente e puntualmente impallinata dal convergente interesse di una classe politica preoccupata di non turbare gli equilibri acquisiti e di non rinunciare a una pur piccola fetta di potere. Eppure le Province, nella loro dimensione di organo elettivo e di rappresentanza politica, non hanno più ragione d’essere nell’attuale evoluzione costituzionale. Avrebbero dovuto essere abolite quando sono state istituite le Regioni e invece non solo sono rimaste intatte, ma sono addirittura aumentate di numero e nuovi progetti di legge istitutivi sono all’esame del Parlamento. Sui libri di scuola degli anni 6o le Province erano 92. Poi nel 1968 arrivò Pordenone, nel 1970 Isernia, nel 1974 Oristano. Nel 1992 se ne sono aggiunte ben otto: Verbano-Cusio-Osso la, Biella, Lecco, Lodi, Rimini, Prato, Crotone, Vibo Valentia. Nel 2001 la Sardegna crea quattro province divenute operati ve nel 2005, Olbia-Tempio, Ogliastra, Medio Campidano e Carbonia-Iglesias. Nel 2004 è stato dato il via libera a Monza e Brianza, Fermo e Barletta-Andria-Trani (tre capoluoghi per una sola picco la realtà, un record). È arrivato così a 110 il numero complessivo delle Province italiane (tenendo conto anche della Valle d’Aosta dove tuttavia Provincia e Regione coincidono). E in tanto bussano al Parlamento decine di disegni di legge per istituirne altre. Da BustoArsizio alla Val Camonica, da Sala Consilina all’Arcipelago campano, dalla Versilia al Tigullio, la Provincia rischia di diventare come «un sigaro toscano e un titolo da cavaliere», che, diceva Giolitti, non si negano a nessuno.
Eppure ci sono mille ragioni per abolire le Province e quindi automaticamente impedire che ne nascano di nuove. Sono, tra l’altro, una dimensione politica che non ha paragoni in nessun altro Paese simile all’Italia. In Francia i Dipartimenti hanno dimensione analoga, ma al di sopra c’è poi solo lo Stato. E in Germania non c’è nulla tra i Comuni e i Länder. In Gran Bretagna ci sono le Contee, ma hanno carattere tecnico-amministrativo e non politico. Negli Stati Uniti avviene lo stesso e nella maggior parte dei casi le contee sono una linea sulla carta geografica oppure individuano le competenze giudiziarie o di polizia: non a caso l’autorità più importante è lo sceriffo.
Ma che competenze hanno le Province italiane? Molte, complesse e indispensabili dicono i difensori dell’Istituzione. Gestiscono gran parte della rete viaria (tranne le autostrade, a meno che non ne posseggano una quota), hanno responsabilità diretta sull’edilizia e gli arredi scolastici, promuovono i corsi di formazione professionale, gestiscono i centri per l’impiego, curano le iniziative per la difesa ambientale, esercitano i controlli antisismici. Tutte responsabilità importanti per la promozione e lo sviluppo del territorio e che nessuno vuole certo abolire. La domanda vera infatti è: c’è bisogno di un livello politico-rappresentativo per gestire queste competenze? Sono indispensabili un Consiglio provinciale, tanti assessori, un presidente e altrettanti uffici?
La risposta è puramente e semplicemente “no”. Perché una buona manutenzione delle strade o i controlli antisismici non sono né di destra né di sinistra e una gestione coordinata e programmata di tutte le competenze provinciali può avvenire probabilmente meglio attraverso entità tecnico-operative che possono mantenere le attuali dimensioni, ma dipendenti “politicamente” dalle Regioni. Non è solo un problema di costi. Gran parte del personale delle Province svolge un’opera utile e meritoria che dovrebbe continuare a svolgere sotto il cappello regionale (o, in qualche caso, municipale). Quello che va abolito è solo l’apparato politico: presidenti, assessori e cancellieri più il loro staff, le loro segreterie, i loro consulenti. Si risparmierebbero subito più di cento milioni di euro, come ha dimostrato domenica scorsa l’inchiesta del Sole-24 Ore sui costi della politica, e gli effetti positivi dei risparmi si moltiplicherebbero a catena.
Ma non è comunque l’entità della cifra la ragione maggiore per muoversi. Abolire la dimensione politica delle Province risponderebbe soprattutto alle esigenze di modernità, di superamento dello Stato napoleonico, di avvicinamento dei cittadini alla politica. Esaltando le competenze dei Comuni, la capacità delle Regioni e il coraggio dello Stato di fare una vera cura dimagrante senza ridurre, ma anzi migliorando, l’efficienza dei propri servizi.